“Arrival”: tra E.T. e la guerra dei mondi

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Arrival è un film che ha diviso le masse, affrontando un genere storico in un modo totalmente inaspettato. Tratto dal racconto “Storia della tua vita” di Ted Chiang, la pellicola dirama le sue radici in una fantascienza sporca e un po’ cupa che vede protagonista uno straniero pacato, a metà tra i mostri de La Guerra dei mondi e l’esserino di E.T..

A differenza dei classici film di fantascienza, in Arrival, solo alla fine, si scopre la vera natura di questi misteriosi visitatori, arrivati sulla Terra con 12 incredibili navi spaziali. La luce, la chiarezza e l’ovvietà di questo genere sembrano via via scomparire, offuscate da nuvole e nebbia che sono quasi un tutt’uno con questi esseri silenziosi, affascinanti e inquietanti. Tutte le nostre previsioni e supposizioni vengono da subito messe a dura prova per poi essere demolite pezzo dopo pezzo.

Ma chi sono questi misteriosi visitatori? Che cosa vogliono? Nessuno lo sa, nemmeno lo spettatore, che resta appesa ad un filo per tutta la durata del film. Tutti sono preoccupati e nessuno si sente più al sicuro.

In questo caos generale, Louise (Amy Adams), studiosa del linguaggio, e il fisico Gary Donnelly (Jeremy Renner) cercheranno di capire il modo di comunicare dei “nuovi venuti”, con lo scopo di apprendere le loro intenzioni. Saranno costretti ad entrare in casa del “nemico”, una navicella spaziale con l’aria di una stanza degli orrori dai colori cupi, per vedere gli Eptapodi, nascosti al di là di un grande vetro, simile a quello degli acquari, che consentirà loro di comunicare.

Intorno a questo scenario da “guerra mondiale”, dove tutti i grandi Stati vogliono affrontare il problema a modo loro, il film costruisce il suo cuore battente all’interno del personaggio di Louise, che entrando in contatto con gli alieni, è costretta a rivivere, sotto forma di flashback sconnessi, la perdita della figlia, avvenuta a causa di una grave malattia.

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Arrival ci mette di fronte alla “teoria della relatività” della Linguistica moderna. “La teoria di Sapir-Whorf afferma che se si inizia ad imparare una lingua, si inizierà a sognare e anche a pensare in quella lingua. A circa metà del film, apprendiamo che loro riescono a scrivere una frase simultaneamente con entrambe le mani.

Conoscono la fine della frase mentre stanno scrivendo il suo inizio. Mentre Louise cerca di scrivere nella loro lingua alla sua maniera, le sinapsi del suo cervello iniziano a collegarsi con il linguaggio e con il suo modo di pensare. Più impara il loro linguaggio, più i suoi pensieri diventano confusi. Inizia ad avere non proprio interruzioni psicotiche, quanto vividi flashback del suo passato. Perché questo linguaggio le porta alla mente ricordi della figlia che ha perso?” ci spiega il regista Dennis Villeneuve.

Il linguaggio ci cambia mettendoci in contatto con gli “altri” e con parti del nostro io che non sapevamo nemmeno di avere. Così il nemico, piano piano, si trasforma in una realtà interiore, subdola, forse più pericolosa del male esteriore che ci circonda. In un salto continuo tra uno spazio temporale e l’altro, Louise si trova sempre a metà tra due mondi: passato/futuro, vita/morte e sogno/realtà.

È in questo modo che Arrival si trasforma da un film per teenagers ad un film per adulti, da una pellicola di fantascienza ad una drammatica ed introspettiva. Il regista stravolge completamente il genere che si era prefissato di seguire, quasi adattandosi alla natura di Amy, molto più vicina a questo genere che ad uno d’azione.

L’attrice, nonostante non riesca a piacermi perché espressivamente costante per tutta la durata del film, riesce comunque ad impersonare una Louise travagliata, preoccupata e distrutta interiormente. Chi invece risulta un pesce fuor d’acqua è Jeremy Renner, che sembra lontano dal personaggio introspettivo che dovrebbe interpretare, bisognoso dell’azione a cui era abituato con “Occhio di falco”. Per tutto il film appare legato, tenuto in catene e limitato. I suoi occhi bramano l’azione e il suo corpo è troppo impacciato nei movimenti lenti.

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Questo film, quasi intimo ma ricco di effetti speciali, è una totale contraddizione. Stupisce e delude il pubblico: gli amanti della fantascienza si sentono offesi nel loro orgoglio e gli haters di questo genere apprezzano la novità. Tutti gli altri sono solo turbati e confusi. Tutto questo perché Villeneuve si prefigge l’obiettivo di porre allo spettatore degli interrogativi filosofici, lontano da ciò a cui siamo abituati ma vicino agli albori della fantascienza.

Cosa succederebbe se sapeste in che modo state per morire e quando morirete? Quale sarebbe il vostro rapporto con la vita, l’amore, la famiglia gli amici e la vostra società? Essere maggiormente in relazione con la morte, in modo intimo con la natura della vita e le sue sfumature, ci farebbe diventare più umili. L’umanità adesso ha bisogno di questa umiltà.

Arrival è così un film di nicchia vestito da SCI-FI Hollywoodiano. Per gli amanti del cinema è sicuramente un must.

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